Cosa sono i meccanismi di difesa dell’IO?

Il primo autore ad introdurre il concetto di “meccanismi di difesa” fu proprio Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. In realtà, quando parliamo di difese ci riferiamo a modi globali, inevitabili e adattivi, mediante i quali ciascuno di noi percepisce il mondo. Purtroppo, tuttavia, già agli albori della psicoanalisi, si instaurò, ingiustamente, nel senso comune l’idea che le difese fossero qualcosa di disadattivo e disfunzionale, al punto tale che la parola stessa assunse una connotazione negativa, come quando ci riferiamo a qualcuno con il termine “sta sulla difensiva”, che suona come un’annotazione foriera di una sfumatura critica. In realtà, come ben evidenziato da Nancy McWilliams, una delle più brillanti esponenti della psicoanalisi contemporanea, le difese hanno una molteplicità di funzioni positive. Innanzitutto sono espressione di una capacità sana di adattamento, spesso sono creative e operano positivamente lungo tutto il corso della vita dell’individuo, difendendolo per l’appunto da eventuali minacce. In particolare, molte difese hanno l’obiettivo di evitare o comunque permettere all’individuo di gestire sentimenti o vissuti intensi, l’ansia per esempio, ma anche emozioni più difficili da tollerare, come il senso di perdita, la vergogna e l’invidia.

Quali meccanismi conosciamo e come si suddividono?

I meccanismi di difesa si suddividono in processi difensivi primari e processi difensivi secondari.

Tra i primari troviamo:

  • Il ritiro estremo: per avere un’idea di come funziona il ritiro possiamo pensare alla reazione di auto protezione automatica di un bambino quando viene sovrastimolato o si trova in uno stato di forte tensione emotiva e si addormenta, ritirandosi in un diverso stato di coscienza. Analogamente, anche gli adulti possono attivare un processo simile, sottraendosi per esempio a determinate situazioni sociali o interpersonali;
  • Il diniego: anche in questo caso possiamo riferirci ad una possibile modalità di un bambino piccolo di affrontare le esperienze spiacevoli, rifiutandosi di accettare che queste accadano. E’ quello che succede a ciascuno di noi, quando ci troviamo a dover far fronte ad eventi catastrofici o come reazione iniziale dinanzi alla perdita di una persona cara;
  • Il controllo onnipotente: per il neonato il mondo esterno ed il Sé sono un’unica cosa. Proprio a tale riguardo Fonagy osserva che, fino ai 18 mesi, il bambino vive in uno stato di “equivalenza psichica”, dove il mondo esterno è percepito come conforme a quello interno. E’ il concetto di “egocentrismo primario” di Piaget, che in alcuni casi può permanere, sotto certi profili, nel funzionamento difensivo dell’adulto;
  • Idealizzazione e svalutazione estreme: Ferenczi riporta che, nel corso dello sviluppo, si osserva un passaggio dalle fantasie primitive di onnipotenza del Sé a fantasie primitive di onnipotenza delle figure di accadimento, che inducono il bambino a credere che mamma e papà siano in grado di proteggerlo da tutti i pericoli della vita. L’idealizzazione tuttavia permane anche nella mente dell’adulto in forme e modalità diverse;
  • La proiezione, l’introiezione e l’identificazione proiettiva: proiezione e introiezione sono le due facce della stessa medaglia, poiché in entrambe si riscontra una mancanza di confini psicologici tra il Sé e il mondo, così come accade al bambino che necessita di un tempo per poter distinguere quali esperienze provengono dall’interno e quali hanno origine fuori di sé.

Tra i secondari troviamo:

  • La rimozione: coincide con un dimenticare o ignorare motivato. Secondo Freud l’essenza della rimozione “consiste semplicemente nell’espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza”. Dunque se un vissuto interno o una circostanza esterna sono sentiti come disturbanti, vengono consegnati nell’inconscio;
  • La regressione: è il meccanismo che osservano i genitori quando un bambino ricade in comportamenti, propri di uno stadio evolutivo precedente, quando è stanco o affamato. Lo sviluppo emotivo e sociale, infatti, non procede come se evolvesse su una linea retta, ma assume al contrario un andamento fluttuante;
  • L’isolamento dell’affetto: è una modalità mediante la quale le persone possono gestire l’ansia e la sofferenza, isolando l’emozione dalla conoscenza, ovvero dalla dimensione cognitiva. E’ ciò che avviene per alcune professioni, ad esempio quella del chirurgo, che per lavorare efficacemente deve poter prendere le distanze dalla sofferenza fisica del paziente;
  • L’intellettualizzazione: è ciò che accade a quelle persone che, pur parlando dei propri sentimenti, vengono percepiti da chi li ascolta come anaffettivi. McWilliams fa l’esempio di chi pronuncia frasi del tipo “Bene, naturalmente la cosa mi fa un po’ rabbia”, con un tono casuale e distaccato, inibendo l’espressione concreta della rabbia;
  • La razionalizzazione: questo concetto viene ben esplicitato dalle parole di Benjamin Franklin che osservava che “essere una creatura ragionevole è così comodo, perché ci rende capaci di trovare o dare una spiegazione a qualunque cosa ci venga in mente di fare”. In altre parole, la razionalizzazione fa riferimento a quanto espresso dalla morale della famosa favola di Esopo della volpe e l’uva.

Perché i meccanismi di difesa sono importanti? 

I meccanismi di difesa sono fondamentali poiché assolvono ad una molteplicità di funzioni, tra le quali troviamo per esempio il mantenimento di un livello accettabile di autostima della persona e la gestione dell’ansia. Hanno altresì un ruolo centrale rispetto all’attaccamento e ai processi di separazione, agendo contro i sentimenti di perdita. Favoriscono il mantenimento di un senso di sé forte, coerente e positivamente valutato e svolgono una funzionalità nelle relazioni di coppia e sistemiche. Ogni individuo inoltre ha delle difese preferenziali e pressoché automatiche, che divengono con il tempo parte integrante di uno stile personale nell’affrontare i problemi e le questioni della vita e che sono esito dell’interazione di una serie di fattori: il temperamento costituzionale, la natura delle difficoltà affrontate nella prima infanzia, le difese messe in atto e le conseguenze sperimentate dall’uso di particolari difese. Seguendo questa linea di pensiero, Waelder sottolinea dunque come la scelta inconscia delle modalità difensive preferite sia sopra determinata. 

Meccanismi di difesa: il ruolo della psicoterapia

La dimensione dei meccanismi di difesa, all’interno di un percorso di terapia, assume una forma complessa, proprio per la connotazione degli stessi, che per loro natura operano al di fuori della coscienza e si sviluppano secondo sequenze prevedibili, in linea con i processi di maturazione del bambino. Inoltre i meccanismi di difesa sono presenti in tutte le persone e rivestono un ruolo centrale specialmente nei frangenti di maggiore tensione ed attivazione emotiva, contribuendo a ridurre l’esperienza cosciente delle emozioni negative e operando tramite il sistema nervoso autonomo. Il ruolo dell’intervento clinico assume dunque una sua rilevanza soltanto in quelle situazioni nelle quali i meccanismi difensivi vengono impiegati in misura eccessiva, correlando con dimensioni psicopatologiche. Infine occorre tenere presente che non esistono meccanismi di difesa più o meno disfunzionali di per sé, ma difese che sono evolutivamente meno mature di altre. Per esempio, il diniego emerge precocemente nello sviluppo, la proiezione evolve successivamente e l’identificazione ancora più tardi.

 

Dott.sa Erika Marchetti

Psicologa Psicoterapeuta