La storia di Giada

Giada è una ragazza di 22 anni, affetta da un disturbo ossessivo-compulsivo dall’età di 14 anni. Arriva nel mio studio dopo avere svolto un percorso psicoterapeutico della durata di quattro anni, a cui era conseguita un’attenuazione della sintomatologia, recentemente riacutizzatasi in maniera abbastanza repentina.

Da circa tre mesi, Giada non riesce più ad uscire dalle mura domestiche, se non per brevissimi periodi di tempo e sempre in compagnia della madre e non ha contatti sociali a causa di alcuni pensieri ossessivi, che la costringono a rimanere chiusa, per buona parte della giornata, nella propria stanza.

Giada vive con i genitori e con la sorella sedicenne e anche i famigliari sono coinvolti in misura significativa nei suoi “rituali”. Il contenuto dei pensieri ossessivi di Giada ruota attorno al tema della “contaminazione” e le condotte ossessive comportano per la ragazza l’obbligo di detergere il corpo e le mani svariate volte durante la giornata. Inoltre, Giada richiede che anche i famigliari, al rientro dalle loro attività esterne, seguano alcune rigide regole per disinfettare indumenti e parti del corpo, seguendo uno specifico “copione” a cui sono tenuti ad attenersi rigidamente.

Giada non accetta che nessuno abbia un contatto fisico diretto con lei, ma consente alla madre alcune limitate interazioni, connesse prevalentemente all’assolvimento di alcuni bisogni primari. Inoltre, solo la madre può entrare nella stanza di Giada, a cui è vietato invece categoricamente l’ingresso alla sorella e al padreche, stando a lungo fuori casa, avrebbero maggiori probabilità di “infettare” l’ambiente con i loro germi.

Più di recente è emerso un nuovo pensiero ossessivo, inerente la possibilità di contrarre qualche patologia mediante l’assunzione di cibi contaminati, elemento questo che sta rendendo estremamente complicato e difficoltoso il momento del pasto sia per Giada che per i famigliari.

I primi colloqui

Nei primi colloqui conoscitivi con Giada, ripercorriamo la storia dell’infanzia della ragazza. Giada è sempre stata una bambina timida, riservata; ricorda come nel periodo delle scuole facesse fatica ad interagire con i coetanei, ma racconta che durante gli anni delle scuole elementari aveva stretto un’amicizia con una bambina, con la quale ancora oggi intrattiene contatti telefonici.

Rammenta come quando aveva 12 anni era stata coinvolta in un grave incidente stradale: alla guida dell’auto, dove viaggiavano lei e la sorellina, c’era il padre. Rientravano da un saggio di danza di Giada, quando vennero sorpresi da un forte temporale, il padre perse il controllo dell’auto e urtò violentemente un’altra automobile. Mentre il padre e la sorella uscirono praticamente indenni dall’incidente, Giada trascorse un lungo periodo in ospedale, subì svariate operazioni e dovette sottoporsi ad una riabilitazione impegnativa; ancora oggi riporta una cicatrice abbastanza visibile all’arto inferiore sinistro. Rammenta come, a seguito di tali accadimenti, i genitori e in particolare la madre, fossero diventati molto protettivi nei suoi riguardi e come, in adolescenza, avesse vissuto questo atteggiamento genitoriale come invasivo e fonte di intensi vissuti di rabbia e frustrazione.

L’intervento terapeutico

A conclusione dei primi cinque colloqui, restituisco a Giada una proposta di intervento terapeutico, che andrà a delinearsi con una cadenza settimanale di incontri. Ritengo opportuno effettuare un invio ad uno psichiatra, al fine di valutare l’eventualità di introduzione di un supporto farmacologico, che permetta alla sintomatologia, attualmente in una fase acuta, di trovare un minimo contenimento, tale da consentire al lavoro psicoterapeutico di fluire in maniera maggiormente efficace. Già in passato Giada si era sottoposta ad un trattamento farmacologico, che aveva tuttavia interrotto di sua iniziativa e senza un confronto preliminare con il medico, una volta che la condizione clinica si era stabilizzata.

Parallelamente al mio lavoro con Giada, propongo ai genitori una presa in carico con un collega psicoterapeuta, che possa supportarli nella loro funzione genitoriale e sostenerli rispetto alle potenti dinamiche, che vengono innescate in ambito famigliare dalla persona con disturbo ossessivo-compulsivo.

Come ben evidenziato da Glen Gabbard, la terapia psicoanalitica può aiutare il paziente a ridefinire un senso di sé che non contempli l’esperienza dei rituali e dei pensieri ossessivi e a sviluppare una maggiore consapevolezza e capacità di mentalizzazione rispetto al mondo interiore proprio e altrui, aiutando i pazienti e le loro famiglie a comprendere la natura dei fattori stressanti e a gestire in maniera più efficace il sintomo.

 

Dott.sa Erika Marchetti

Psicologa Psicoterapeuta