I bambini sotto i sei anni comunicano prevalentemente attraverso canali non verbali: espressioni del viso, postura, tono della voce, comportamento e gioco sono centrali almeno quanto le parole. La psicologa dello sviluppo Alison Gopnik, nel suo libro “The Philosophical Baby”, descrive i bambini piccoli come estremamente ricettivi e sensibili agli stati emotivi. La capacità di regolazione delle emozioni è ancora immatura nei primi anni, e i bambini sperimentano emozioni intense con strumenti linguistici e di autoregolazione ancora in sviluppo.
Questo crea una frattura apparente: loro sentono molto, ma faticano a tradurre ciò che vivono in parole comprensibili e organizzate. Quando un bambino di tre anni strilla apparentemente senza motivo, potrebbe star comunicando sovraccarico sensoriale, paura, frustrazione o persino un disagio fisico che lui stesso non riesce a identificare. I comportamenti esterni come pianto, urla e opposizione sono frequentemente espressione di stati interni non mentalizzati o non verbalizzati. Il nostro errore più comune è cercare una logica adulta in una comunicazione che segue regole evolutive completamente differenti.
La trappola delle aspettative linguistiche
Molte mamme si sentono inadeguate perché attribuiscono ai propri figli competenze comunicative e di autoriflessione che ancora non possiedono. Un bambino di quattro anni ha un linguaggio in rapido sviluppo, ma le sue capacità di spiegare in modo razionale e coerente il perché delle proprie preferenze o dei propri stati interni sono ancora limitate: le funzioni esecutive e le capacità metacognitive si costruiscono gradualmente durante l’infanzia.
Daniel Siegel, neuropsichiatra infantile, nel suo libro “The Whole-Brain Child” evidenzia come le aree della corteccia prefrontale, associate al ragionamento logico, alla pianificazione e all’autocontrollo, siano ancora in via di maturazione nei bambini piccoli. Pretendere risposte pienamente logiche e argomentate da chi sta ancora costruendo queste strutture neurali aumenta il rischio di frustrazione reciproca.
I segnali che precedono le parole
Prima di lavorare sulla comunicazione verbale, è utile diventare lettrici attente dei segnali non verbali. La capacità del genitore di cogliere e interpretare appropriatamente i segnali del bambino è un fattore chiave per una relazione sicura. I bambini piccoli comunicano attraverso variazioni nel ritmo del gioco: un rallentamento improvviso, un passaggio da un gioco coinvolto a un vagare disorganizzato possono essere segnali di stanchezza emotiva o sovraccarico, non solo di fatica fisica. Cambiamenti nella postura corporea come spalle chiuse, sguardo basso ed evitamento visivo sono spesso associati a emozioni come tristezza, vergogna o bisogno di conforto.
Anche le modifiche nel tono vocale rivelano molto: un’alterazione del tono o della prosodia, come una voce più acuta, pressata o lamentosa, può accompagnare stati di ansia, eccitazione o irritazione. I comportamenti regressivi, come il ritorno temporaneo a modalità più infantili, rappresentano una risposta comune a stress, cambiamenti o paure e costituiscono una richiesta implicita di maggiore rassicurazione e vicinanza.
Sintonizzarsi sull’onda emotiva giusta
La comunicazione con i bambini piccoli diventa più efficace quando l’adulto si abbassa fisicamente al loro livello: inginocchiarsi, sedersi vicino, guardare negli occhi facilita la regolazione emotiva e la percezione di sicurezza. La presenza fisica e lo sguardo responsivo del caregiver hanno un ruolo centrale nella regolazione dello stress e nello sviluppo socio-emotivo.
La psicologa Tina Payne Bryson, insieme a Daniel Siegel, utilizza il principio di “connessione prima della correzione” per indicare l’importanza di entrare in sintonia emotiva prima di intervenire sul comportamento. Quando vostro figlio vi chiama ripetutamente mentre siete impegnate, spesso non sta solo cercando qualcosa di concreto: i bambini verificano la disponibilità e la responsività del caregiver come base di sicurezza. Percepire che l’adulto interrompe brevemente ciò che sta facendo, si gira, guarda e risponde in modo sintonizzato può avere un impatto diverso rispetto a una risposta solo verbale data di spalle.
Il metodo della narrazione condivisa
Un approccio utile consiste nel verbalizzare per i bambini ciò che potrebbero provare, offrendo una sorta di traduzione simultanea delle loro emozioni. Invece di chiedere “Cosa c’è che non va?”, provate con: “Vedo che stai stringendo forte il tuo orsetto. Forse ti senti un po’ preoccupato per qualcosa?”
Questa pratica, chiamata etichettatura emotiva, aiuta i bambini a dare un nome a ciò che sentono. Gli studi mostrano che etichettare verbalmente le emozioni riduce l’attivazione delle aree cerebrali legate allo stress e aumenta l’attività in quelle associate al controllo cognitivo. Lisa Feldman Barrett, nel libro “How Emotions Are Made”, discute come la costruzione di un ricco vocabolario emotivo sia fondamentale per riconoscere e regolare le emozioni lungo tutto l’arco di vita. Applicata ai bambini, questa pratica li aiuta a dare un nome a ciò che sentono e a sentirsi profondamente compresi.

Quando il silenzio comunica più delle parole
Non tutti i momenti richiedono conversazione. I bambini piccoli hanno bisogno di presenza silenziosa tanto quanto di dialogo. La possibilità di giocare in presenza di un adulto disponibile ma non intrusivo sostiene l’esplorazione e il senso di sicurezza.
Sedersi accanto a loro mentre costruiscono con i mattoncini, senza dirigere o riempire ogni pausa con domande, può comunicare accettazione e fiducia nelle loro iniziative. Interventi adulti troppo frequenti e direttivi durante il gioco possono ridurre l’autonomia e la creatività del bambino. Per timore del silenzio, molti adulti tendono a colmare ogni spazio con parole, quando invece momenti di silenzio condiviso e non giudicante possono favorire l’emergere spontaneo del racconto e delle domande da parte del bambino, che non si sente sotto esame.
Riconoscere i propri filtri comunicativi
Spesso la difficoltà nel comprendere i nostri bambini deriva dai nostri schemi relazionali e emotivi interni. La ricerca sull’attaccamento adulto mostra che il modo in cui gli adulti narrano la propria storia di attaccamento e di relazioni significative è strettamente associato al tipo di attaccamento che si sviluppa nei loro figli.
Se siamo cresciute in famiglie in cui le emozioni venivano poco nominate o accolte, potremmo avere più difficoltà a riconoscerle e tollerarle nei nostri figli. Gli studi di Mary Main hanno mostrato che la coerenza e la riflessività con cui un adulto parla delle proprie esperienze infantili predice la probabilità che il figlio sviluppi un attaccamento sicuro. Domande come “Quali emozioni mi mettono più a disagio?” o “Cosa si attiva in me quando mio figlio piange intensamente?” aiutano a distinguere ciò che appartiene alla situazione presente da ciò che appartiene alla nostra storia. Questa consapevolezza è un fattore documentato che influisce sulla qualità della comunicazione genitore-figlio.
Creare rituali di connessione quotidiana
La comunicazione efficace si costruisce anche attraverso piccoli rituali prevedibili, che creano sicurezza e senso di appartenenza. Gli studi mostrano che genitori che dedicano tempi regolari all’ascolto e alla condivisione emotiva hanno figli con migliori competenze sociali e meno problemi comportamentali.
Esempi di rituali includono dieci minuti di “tempo speciale” in cui il bambino sceglie l’attività e il genitore segue senza dirigere o giudicare. Il momento del risveglio dedicato a coccole silenziose o a un contatto fisico tranquillo prima delle richieste pratiche facilita una transizione più dolce e una migliore regolazione emotiva. La pratica della “rosa e la spina” serale, in cui si condivide la cosa migliore e quella più difficile della giornata, diventa un momento di condivisione emotiva quotidiana. Anche messaggi o disegni nascosti che comunicano affetto senza richiesta immediata di risposta sostengono il senso di essere pensati anche in assenza fisica.
Questi momenti contribuiscono a costruire quello che John Gottman chiama un “conto emotivo”, fatto di interazioni positive da cui attingere nei momenti di tensione.
Accettare l’imperfezione come strumento di crescita
La madre perfettamente sintonizzata non esiste, e la teoria dello sviluppo psicologico non la considera auspicabile. Donald Winnicott ha introdotto il concetto di “madre sufficientemente buona” per descrivere un caregiver che risponde in modo adeguato ma non perfetto ai bisogni del bambino, permettendo così al piccolo di sviluppare gradualmente le proprie capacità di tollerare frustrazione e di autoregolarsi.
I bambini non hanno bisogno che il genitore capisca sempre tutto: hanno bisogno di vedere un adulto che prova, sbaglia, riconosce l’errore e ripara. La ricerca evidenzia che la capacità di riparare i momenti di disconnessione è cruciale per l’esito positivo della relazione, più della perfezione nell’evitarli.
Dire “Scusa, prima non ho capito cosa volevi dirmi. Possiamo riprovare?” è un atto comunicativo potente: modella l’idea che la comunicazione è un processo negoziato, che gli errori sono riparabili e che il legame può reggere alle incomprensioni. La sintonia con i bambini piccoli è un’arte che si affina con la pratica, la pazienza e una buona dose di compassione verso se stesse. Ogni incomprensione può diventare un’occasione per conoscerli meglio e per esplorare parti di noi che forse erano rimaste in ombra.
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