Vedere un figlio giovane adulto che perde motivazione verso lo studio universitario o la formazione professionale rappresenta una delle sfide più complesse per un genitore. Non si tratta semplicemente di pigrizia o svogliatezza: dietro quella procrastinazione cronica e quel disinteresse apparente si possono nascondere dinamiche psicologiche profonde che meritano di essere comprese prima ancora che risolte.
La demotivazione accademica nei giovani adulti è un fenomeno rilevante in Italia. Secondo i dati ISTAT sul rendimento universitario, circa un quarto degli immatricolati non è più iscritto l’anno successivo, con tassi di abbandono entro il primo anno che oscillano intorno al 20-25% a seconda dell’ateneo e dell’area disciplinare. Ma questi numeri raccontano solo una parte della storia: dietro ogni statistica c’è una persona che attraversa un momento di forte incertezza rispetto alla propria identità e al proprio futuro.
Comprendere le radici invisibili della demotivazione
Prima di allarmarsi o reagire con pressioni e ultimatum, è utile riconoscere che la mancanza di interesse accademico raramente è il problema di base. Spesso è il sintomo visibile di qualcosa di più profondo, legato a identità, autostima e senso di efficacia personale. Lo psicologo dello sviluppo Laurence Steinberg descrive l’adolescenza e la tarda adolescenza come periodi in cui l’ingresso nella vita adulta è più tardivo e graduale rispetto al passato, con una lunga fase di esplorazione di ruoli e identità, tipica delle società occidentali contemporanee.
I giovani adulti di oggi affrontano pressioni che le generazioni precedenti non hanno sperimentato con la stessa combinazione e intensità: precarietà del lavoro, richiesta di alta qualificazione, forte esposizione al confronto sociale mediato dai social media e un eccesso di possibilità formative che può aumentare l’indecisione invece di ridurla. Gli studi sulla cosiddetta età adulta emergente mostrano come l’aumento di opzioni e la flessibilità dei percorsi generino spesso ansia decisionale, dubbi identitari e rinvii nelle scelte.
Quando la procrastinazione diventa un linguaggio emotivo
La procrastinazione accademica non è soltanto una questione di cattiva gestione del tempo o di scarso senso del dovere. La ricerca del professor Timothy Pychyl della Carleton University indica che la procrastinazione è spesso una strategia di regolazione emotiva di breve termine: si rimanda un compito perché associato a emozioni negative come ansia, noia, frustrazione o paura del fallimento, scegliendo attività più gratificanti nell’immediato. In altre parole, il rinvio diventa un modo per evitare stati emotivi spiacevoli, non solo un vizio di carattere.
Per un genitore è importante provare a decodificare questo linguaggio silenzioso. Un figlio può non riuscire a dire apertamente “ho paura di deludervi” o “non sono sicuro che questo percorso faccia per me”, ma può comunicare questi vissuti attraverso il blocco, il ritiro, la difficoltà a iniziare o completare i compiti di studio. Gli studi sull’ansia da prestazione mostrano che timore del giudizio e perfezionismo sono spesso collegati a evitamento e procrastinazione negli studenti universitari.
Segnali da non sottovalutare
Alcuni segnali di sofferenza che possono accompagnare la demotivazione accademica includono:
- Cambiamenti significativi nelle abitudini del sonno o dell’alimentazione, come insonnia, ipersonnia, calo o aumento marcato dell’appetito
- Isolamento sociale progressivo rispetto ai pari, riduzione delle attività prima considerate piacevoli
- Irritabilità o chiusura quando si affronta il tema dello studio o del futuro
- Aumento dell’uso di videogiochi, streaming o social media come forma di evitamento
- Espressioni di inadeguatezza, confronto negativo con i coetanei, sentimenti di fallimento o inutilità
Strategie relazionali efficaci: oltre il dialogo tradizionale
La reazione spontanea di molti genitori è proporre soluzioni rapide, consigli non richiesti o, nei casi più estremi, ricorrere a minacce e ricatti emotivi. Tuttavia, gli studi sulla relazione genitore-figlio in adolescenza e giovane età adulta indicano che uno stile fortemente controllante, poco aperto all’ascolto, è associato a maggiore conflitto, minore autonomia percepita e peggior adattamento studentesco.
Create spazi di dialogo non giudicante. Conversazioni troppo frontali e a interrogatorio possono indurre chiusura difensiva, mentre uno scambio più laterale, durante attività condivise, favorisce l’espressione di pensieri e paure. La psicoterapeuta Philippa Perry sottolinea l’importanza di un atteggiamento curioso e non giudicante nel dialogo con i figli, evidenziando come la disponibilità all’ascolto attivo sia più efficace delle prediche nel favorire l’apertura emotiva.
Riconoscete la legittimità della crisi. Frasi come “alla tua età io già lavoravo” o “non sai quanto sei fortunato” tendono a minimizzare la sofferenza attuale, anche se dette con buone intenzioni. Gli studi sulla validazione emotiva mostrano che riconoscere e legittimare i vissuti dell’altro, senza necessariamente approvarne i comportamenti, facilita la regolazione emotiva e la cooperazione nelle relazioni familiari.

Il potere delle domande aperte
Trasformare le affermazioni in domande aperte e curiose favorisce la riflessione autonoma e riduce la sensazione di essere sotto processo. Invece di “Quando inizierai a prenderti sul serio?”, provate con “Cosa provi quando pensi al tuo percorso universitario?” oppure “Cosa ti pesa di più in questo momento?”. La letteratura sull’ascolto motivazionale indica che domande aperte, riflessione e validazione aumentano il senso di autonomia e la disponibilità al cambiamento, soprattutto nei giovani.
Ripensare il concetto di successo formativo
Uno degli ostacoli principali alla motivazione è una visione troppo rigida e lineare del successo: diploma, laurea, lavoro stabile come unico percorso possibile. Le ricerche sulle transizioni scuola-lavoro mostrano che i percorsi reali dei giovani europei sono sempre più articolati, con periodi di pausa, cambi di direzione, rientri in formazione e traiettorie non lineari.
Alcuni giovani adulti traggono beneficio da periodi di pausa strutturata, se utilizzati per esperienze di lavoro, volontariato o orientamento, piuttosto che come mero ritiro passivo. Gli studi longitudinali hanno evidenziato che esperienze formative e lavorative coerenti con interessi e valori personali sono associate a maggiore soddisfazione di vita e benessere psicologico in età adulta, anche quando i percorsi non sono pienamente convenzionali. Una ricerca condotta dalla psicologa Wiebke Bleidorn e colleghi ha inoltre mostrato che i percorsi di vita che permettono espressione di interessi autentici sono associati a una crescita favorevole della personalità e del benessere lungo l’arco della giovane età adulta.
Il ruolo strategico del supporto professionale
Rivolgersi a un orientatore professionale o a un career counselor non è un segno di fallimento, ma un modo strutturato per esplorare competenze, interessi e valori. La letteratura sul career counseling mostra che interventi basati sull’esplorazione guidata e sull’allineamento tra interessi e scelte formative riducono l’indecisione e aumentano l’impegno negli studi.
Se la demotivazione si accompagna a sintomi come umore depresso persistente, marcata ansia, ritiro sociale importante o forte compromissione del funzionamento quotidiano, può essere indicato un supporto psicoterapeutico. Gli studi su studenti universitari indicano che l’accesso a servizi di consulenza psicologica è associato a miglioramento dei sintomi e maggiore probabilità di proseguire gli studi. Normalizzare la psicoterapia come strumento di cura e crescita, piuttosto che come ultima risorsa per chi sta male, riduce lo stigma e facilita la richiesta di aiuto.
Costruire motivazione autonoma, non dipendenza
L’obiettivo non è forzare un giovane adulto a seguire un percorso deciso dai genitori, ma sostenerlo nello sviluppo di una motivazione autonoma. La teoria dell’autodeterminazione di Edward Deci e Richard Ryan distingue tra motivazione estrinseca, guidata da pressioni esterne, e motivazione intrinseca, che nasce da interesse, senso di competenza e percezione di autonomia. Contesti familiari che sostengono questi tre bisogni di base favoriscono un impegno più stabile e una migliore salute psicologica.
Favorite esperienze concrete. Stage brevi, tirocini, volontariato, progetti personali o collaborazioni temporanee permettono di provare ruoli diversi con un impegno limitato nel tempo. La ricerca indica che esperienze di apprendimento attivo e lavoro sul campo possono aumentare il senso di autoefficacia professionale e chiarire interessi e obiettivi.
Celebrate i piccoli progressi. Nei momenti di blocco, anche passi apparentemente minimi rappresentano tasselli fondamentali nella ricostruzione della fiducia. Alzarsi all’ora concordata, inviare una mail al docente, partecipare a una lezione, completare una parte di esame: tutto questo conta. Gli studi sull’autoefficacia di Albert Bandura mostrano che l’esperienza di successi graduali e realistici è uno dei principali motori della motivazione e della perseveranza.
La strada verso il ritrovamento della motivazione è spesso lenta e non lineare. Il ruolo dei genitori, in questa fase, è meno quello di aggiustare e più quello di offrire una presenza stabile, interessata, ma non invadente. Messaggi chiari di accettazione incondizionata della persona, distinti dalla valutazione dei risultati, rappresentano un fattore protettivo fondamentale per l’autostima e la resilienza dei giovani adulti. A volte, la semplice comunicazione “ti voglio bene indipendentemente dai tuoi voti o dal tempo che impiegherai a capire la tua strada” può essere il punto di svolta che vostro figlio attendeva per ricominciare a muoversi verso il proprio futuro.
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